Per capire Giotto non si può prescindere dalle correnti spirituali della sua epoca, come non si può prescindere da Dante, poiché insieme rappresentano l’identità medievale. 

Nel Trecento le strade di Dante e Giotto s’incrociano di continuo e saranno i due più grandi protagonisti, che sulla scia di San Francesco di Assisi, daranno una svolta nell’arte e nella letteratura che spalancherà le porte alla modernità. 

I due personaggi hanno lasciato poche testimonianze storiche del loro rapporto fraterno, ma ne hanno tramandate moltissime, sia attraverso i versi danteschi, nel Canto XI del Purgatorio, vv.73-108,  che Dante scrive in omaggio all’artista nella Divina Commedia, che nei ritratti di Giotto a Dante, nella Cappella del Podestà nel Palazzo del Bargello a Firenze e nella Cappella degli Scrovegni a Padova. 

Un’unione spazio-temporale perfetta unisce Giotto e Dante, prima fra tutti sono nati a poche miglia di distanza a Firenze, con soli due anni di differenza, ma soprattutto assorbirono la cultura innovativa della città fiorentina dal substrato misterico, che aprirà le porte al Rinascimento.

Con Dante e Giotto, l’individuo torna al centro della scena; si abbandona l’arte bizantina e si riafferma il naturalismo dell’Italia classica e pagana, in cui l’umano è consapevole della propria avventura materiale collegata al cosmo. 

I due protagonisti s’incontreranno non solo da giovani a Firenze, ma anche negli anni successivi. 

Furono personaggi talmente importanti, che su di loro circolarono molti aneddoti e battute, anche se, ad un certo punto della loro vita si separarono; questo aspetto è ancora un mistero.

 L’esilio di Dante si specchia in contrasto con il successo crescente di Giotto, il primo fu bandito dalla città a differenza del secondo, sempre più inserito, integrato ed acclamato. Non è un caso che la Commedia e gli affreschi nella Cappella degli Scrovegni nascono in parallelo, con la novità dell’aspetto unitario e non come sequenza di episodi staccati e accostati l’uno all’altro.  Le scene della Cappella degli Scrovegni sono capitoli di un unico racconto visivo, come i singoli canti di Dante sono un unicum nell’ambito della struttura del poema. Questi due grandi capolavori apriranno la strada al nuovo mondo. 

Sappiamo che Dante e Giotto si “omaggiarono” reciprocamente attraverso la loro opera: al di fuori di questi elementi, l’unico cenno, relativo al rapporto intercorso tra Durante degli Alighieri e Giotto di Bondone, lo troviamo nel commento tardo-trecentesco alla Divina Commedia elaborata da Benvenuto da Imola

In proposito si è scritto che pur “nella ancor scarsa bibliografia, il collegamento tra Giotto e Dante era dato per scontato”. Nell’affresco di Madonna Povertà presso la Basilica Inferiore di Assisi, il collegamento di pensiero e di scuola sapienziale è pressoché identico. Quel che Dante narra attraverso la poesia, Giotto lo dipinge ed il trait d’union è sicuramente Francesco. Presumibile quindi è che, non solo i due si conoscessero,  ma si frequentassero, anche se in segreto. Molto interessante quello che scrive il Commentatore di Imola:

 

”Accadde una volta che mentre Giotto, ancora abbastanza giovane, dipingeva a Padova una cappella nel luogo dove un tempo c’era l’anfiteatro, o arena, giunse anche Dante da quelle parti e Giotto lo accolse con grandi onori e lo ospitò a casa sua. Qui Dante, vedendo che i suoi molti bambini erano davvero brutti e, per dirla in breve, somigliantissimi al padre, gli chiese: “Egregio maestro, mi domando stupito perché voi, che non avete uguali nell’arte del dipingere, facciate tanto belle le figure degli altri e cosí brutte, invece, le vostre”. Al che Giotto, ridendo, rispose prontamente: “Perché dipingo di giorno, ma plasmo di notte”. La risposta piacque estremamente a Dante, non perché fosse nuova, visto che si trova nei Saturnali di Macrobio (II,II,10), ma perché sembrava nata dall’ingegno dell’uomo». 


Boccaccio illustra Dante come una persona non solo civile e misurata, ma anche cortese. Sicuramente, quindi, il modo che potrebbe essere considerato insolente, su come si rivolge a Giotto offendendo la sua prole, rientra in un linguaggio nascosto, di cui i due conoscevano il vero senso delle parole. Linguaggio che si serve dei Saturnalia di Macrobio.

 

CANTO XI DEL PURGATORIO, VV. 73-108. LA CONVERSIONE DELL’IMMAGINE DELL’ARTE.

Giotto in Dante 
Giotto che toglie il campo al suo maestro Cimabue, tanto da oscurarne la fama, come scrive Dante di Giotto è una affermazione importante. Un giudizio perentorio e forse il più assoluto nella storia dell’arte italiana, che nonostante la presenza di altri artisti illustri del tempo, come per esempio la scuola romana di Pietro Cavallini, dal quale probabilmente, Giotto prende ispirazione, Simone Martini, Duccio di Buoninsegna, i Fratelli Lorenzetti, Arnolfo di Cambio, l’artista toscano viene posto da Dante in cima alla graduatoria di artisti eccellenti.   Con questo verso nell’XI canto del Purgatorio Dante dà un giudizio definitivo su Giotto e attraverso lui  spiega la conversione artistica del Trecento, prototipo ideale per fissare un  punto ben preciso nella storia dell’arte, punto di rottura con la fissità ieratica delle icone greche. 

“ O Padre nostro che ne’ cieli stai

non circunscritto, ma per più amore

ch’ai primi effetti di là su tu hai” (…)

(…) e videmi e conobbemi e chiamava,

tenendo li occhi con fatica fisi

a me che tutto chin con loro andava.

“Oh!” diss’io a lui, “non sé tu Oderisi,

l’onor di Agobbio e l’onor di quell’arte

ch’alluminar chiamata è in Parisi?” (…)

(…) Credette Cimabue ne la pittura

tener lo campo, e ora ha Giotto il grido,

sì che la fama di colui è scura (…)

(Purgatorio,XI, 1-6;76-81;93-96).

Il Sommo Poeta affronta questo particolare momento purificatorio, attraverso la conversione dell’immagine nell’arte.

Il Purgatorio è il luogo dove le anime devono seguire il rito del pentimento, un’educazione dell’anima ad alleggerire i propri peccati e permettere lei di salire verso le sfere celesti. Rappresenta il luogo del cambiamento, come risultato dell’opposizione tra bene e male. Varcata la porta dell’ingresso al Purgatorio, Dante entra con Virgilio nel primo dei sette cerchi, quello in cui viene espiato il peccato più grave: la superbia.  Il canto inizia con un Padre nostro in volgare e non in latino ed è l’unica preghiera che viene citata integralmente nella Commedia. Una preghiera in cui le anime restituiscono a Dio parte di quell’amore che il peccato gli aveva tolto. Il Padre nostro non è circoscritto, ma è nei cieli, per il maggiore amore che ha verso le sue prime creature, le quali, con lo stesso spirito del Cantico di San Francesco, lo laudano e rendono grazie al suo dolce vapore. Sulla base del testo biblico: ”Sapientia vapor est virtutis Dei” (Sap. VII, 25), le anime devono riamare quella Grazia sapiente che è vapore della virtù di Dio.  A quel punto inizia il percorso di purificazione della mente attraverso un patimento che è contrario al peccato. I superbi in questo caso devono camminare portando sulle spalle pesanti massi che li costringono a stare piegati, in modo contrario alla postura del superbo. Le anime tengono gli occhi con fatica fisi come del resto fa lo stesso Dante che inizia a camminare nella stessa postura dei dannati. Il Sommo Poeta affronta questo particolare momento purificatorio, attraverso la conversione dell’immagine nell’arte. La scultura, come la pittura, fissa una scena nel tempo e la ferma immobile per sempre nella mente, invece Dante con fatica fisi dà il senso di una immagine plastica: di essere chino e fisso sotto il peso dell’anima, che deve essere liberata. Non a caso Cimabue credette nella pittura fissa che fu superata da Giotto, con un’evoluzione in senso plastico e naturale che inizia ad andare al di là dell’immagine fissa, dove risiede la verità purificata dall’effimero. 

Il Purgatorio è il luogo dove le anime devono seguire il rito del pentimento, un’educazione dell’anima ad alleggerire i propri peccati e permetterle di salire verso le sfere celesti. Rappresenta il luogo del cambiamento, come risultato dell’opposizione tra bene e male. Varcata la porta dell’ingresso al Purgatorio, Dante entra con Virgilio nel primo dei sette cerchi, quello in cui viene espiato il peccato più grave: la superbia.  Il canto inizia con un Padre nostro in volgare e non in latino, ed è l’unica preghiera che viene citata integralmente nella Commedia. Una preghiera in cui le anime restituiscono a Dio parte di quell’amore che il peccato gli avevano tolto. Il Padre nostro non è limitato ma è nei cieli per il maggiore amore che ha verso le sue prime creature, le quali, con lo stesso spirito del Cantico di San Francesco, lo laudano e rendono grazie al suo dolce vapore. Sulla base del testo biblico: ”Sapientia vapor est virtutis Dei” (Sap. VII, 25), le anime devono riamare quella Grazia sapiente che è vapore della virtù di Dio.  A quel punto inizia il percorso di purificazione della mente attraverso un patimento che è contrario al peccato. I superbi in questo caso devono camminare portando sulle spalle pesanti massi che li costringono a stare piegati, in modo contrario alla postura del superbo. Le anime tengono gli occhi con fatica fisi come del resto fa lo stesso Dante che inizia a camminare nella stessa postura dei dannati. Il Sommo Poeta affronta questo particolare momento purificatorio attraverso la conversione dell’immagine nell’arte. La scultura, come la pittura, fissa una scena nel tempo e la ferma immobile per sempre nella mente. I superbi si piegano sotto il peso di massi come l’anima si piega verso l’immagine di un oggetto di desiderio e nasce un amore che non si placa fino quando la cosa amata la fa gioire. Dante con fatica fisi dà il senso di una figura plastica: di essere chino e fisso sotto il peso dell’anima, che non rimane immobile ma deve essere liberata dagli inganni. 

Dal controllo della mente, alla misura come spoliazione dell’ego si arriva al controllo dei sensi. Occorre vedere al di là della bellezza, conoscere anche il brutto, ovvero l’inconscio dove si annidano i propri scheletri. E’ necessario vedere la realtà per quello che è e non quello che vorremmo che fosse. Questo processo distrugge le immagini menzognere.

Anche il riconoscimento di Oderisi da Gubbio e lo sguardo fisso su di lui dà il senso del riconoscimento di un vecchio amico con il quale fece lo stesso percorso in terra e dell’aiuto reciproco tra persone nelle stesse condizioni di superbia. Dante riconosce la bravura di Oderisi e lo chiama Fratello. La sua arte di miniature in aluminium i cui colori sono l’oro e l’argento utili ad aiutarne la lucentezza, alludono a quel percorso dell’anima che ha come obiettivo il processo di purificazione. 

Questo pensiero è manifesto nel confronto che il Poeta fa tra Cimabue il quale crede nella pittura fissa e l’evoluzione in senso plastico e naturale di Giotto che inizia ad andare al di là dell’immagine, dove risiede la verità purificata dall’effimero. L’arte produce bellezza, rende innamorati dell’immagine dell’oggetto, ma ecco che Giotto supera il maestro con il colore e disegno compositivo più drammatico e più psicologico ma anche più spirituale.  

Giuliana Poli

Giuliana Poli, laureata in giurisprudenza, è giornalista e scrittrice, studiosa di tradizioni arcaiche e corrispondente di testate giornalistiche e televisive. Pubblica nel 2008 ‘L’Antro della Sibilla e le sue Sette Sorelle” (2008 Controcorrente – 2015 XPublishing) un successo che apre un esteso dibattito culturale. Nel 2014 pubblica il suo secondo libro, “Dio è Femmina?” (Finis Terrae, Lugano). Cattedratica onoraria dell’Accademia Tiberina nel 2013 per il suo operato sul recupero delle tradizioni, sul mito e le ritualità arcaiche. E stata capo-dipartimento di Antropologia culturale della; scienza della tradizione etnografica del mito e del rito presso il Ventura Research Institute di Lugano.